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Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del paese

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La terra…madre del diritto.
Il diritto è terraneo e riferito alla terra.

Carl Schmitt

Diritto internazionale e geopolitica

Il diritto internazionale è strettamente correlato alle dottrine geopolitiche. Ne costituisce, anzi, per molti aspetti uno dei fondamenti. Una potenza egemone, persino quando esercita il proprio dominio con brutalità e con il più assoluto degli arbitri, avverte sempre la necessità di appellarsi al diritto, quale fonte ultima del proprio agire.

Carl Schmitt, uno dei principali Rechtsphilosophen dello scorso secolo, rintraccia il legame esistente tra terra e diritto fin nel linguaggio mitico. Inizia, infatti, il primo dei cinque corollari introduttivi al suo Der Nomos der Erde, quello significativamente intitolato Il diritto come unità di ordinamento e di localizzazione, con la seguente affermazione: “La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto” [1].

Per l’area delle cosiddette civiltà indoeuropee, il nesso tra sovranità, diritto e territorio è filologicamente comprovato dalla parentela semantica che sussiste tra il rex, il detentore dell’autorità necessaria per delimitare i confini (colui che può cioè regere fines), e regio, lo spazio regionale. Secondo il linguista Émile Benveniste, “l’accostamento del latino rego al greco orégō ‘stendere in linea retta’ […] fa pensare che il rex, più simile in questo al sacerdote che al re in senso moderno, fosse colui che aveva autorità per tracciare i limiti delle città e per determinare le regole del diritto” [2]. Lo stesso rapporto tra sovranità, diritto e territorio è riscontrabile anche in altri ambiti culturali eurasiatici. Nell’antica Cina, ad esempio, ove lo spazio per principio è concepito come quadrato, cioè delimitato, “la determinazione degli orienti come quella dei siti (la parola fang, oriente, sito, ha anche il senso di quadrato e di squadra) spetta al Capo in quanto egli presiede alle assemblee religiose”[3].

Se quindi il diritto è terraneo e riferito alla terra, per analogia, nella modernità compiuta della nostra epoca, si potrebbe sostenere che la prassi geopolitica costituisce l’insieme delle modalità mediante le quali il diritto internazionale tende a manifestarsi, ad imporsi e, soprattutto, a dotare di senso la specifica dottrina geopolitica che fattualmente lo esprime.

Peraltro è ben evidente che una qualsiasi dottrina geopolitica – di ampio respiro – configurandosi come una risposta totale alle esigenze del proprio tempo, quando applicata, inaugura un nuovo ciclo tra le relazioni degli attori in campo e dunque è portatrice di nuove regole.

Le annessioni, le conquiste, le acquisizioni di territori, la riconfigurazione di questi ultimi in nuove entità geopolitiche, cui spesso sono associate anche evacuazioni e spostamenti di intere popolazioni, impongono necessariamente nuove delimitazioni, nuove sovranità e dunque un nuovo diritto, e, sovente, persino una nuova e diversa concezione della giustizia.

La justissima tellus, il mare e il caos

In rapporto alle diverse modalità spaziali, tra le unità geopolitiche che basano il proprio diritto sulla justissima terra e quelle che basano la propria egemonia sul dominio del mare, esiste, ci avverte Schmitt, una differenza sostanziale. Nel mare non c’è confine, localizzazione, perciò “in mare non vale alcuna legge”.

Occorrerà attendere la formazione delle moderne talassocrazie oceaniche [4], è ancora Schmitt a ricordarcelo, affinché anche nei mari sia possibile stabilire un ordine.

Ma sarà un ordine del tutto particolare, svincolato dalla localizzazione. Schmitt, trattando delle moderne talassocrazie, abbina al termine ordine quello di sicurezza. Mentre, nel caso della terra, il diritto è concepito come unità di ordinamento e localizzazione, nel caso del mare, l’ordine, dunque il potere, è associato ad una funzione, quella di sicurezza. Il dominio sul mare si esercita attraverso il suo controllo. L’applicazione del principio di sicurezza renderà per sempre evanescente ogni limes, ogni confine [5]. Per le talassocrazie moderne non esisteranno più confini, ma soltanto fasce di sicurezza o frontiere mobili da spostare, conformemente alle necessità egemoniche [6]. Anche la percezione del territorio subisce una radicale trasformazione concettuale: esso viene concepito “from the sea” come porto, approdo, base, in particolare come luogo nemico [7]. Alla nota talassofobia delle antiche popolazioni eurasiatiche (India e Cina) [8] corrisponde ora, da parte delle nuove potenze marittime, una sorta di tellurofobia.

Le potenze marittime non conosceranno mai una unità di ordinamento e localizzazione; l’assenza di quel “sakrale Ortung “ che è filologicamente fondativo di ogni tipo di diritto, persino di quello più secolarizzato, sarà il vizio d’origine anche dell’attuale talassocrazia, gli USA, il “continente senza misura (Der maßlose Kontinent)”.

Il nostro Carlo Maria Santoro ha lasciato scritto, sulla scorta di evidenti riflessioni riguardo alle formulazioni schmittiane, che “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” [9].

Non è un dunque una coincidenza che la “geopolitica del caos”, come da più parti è stata definita quella messa in atto dagli Stati Uniti, almeno a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, tendente a frammentare e rendere instabili vaste regioni del pianeta, sia stata concepita ed attuata nell’ambito delle teorizzazioni geopolitiche della tradizione anglo-americana, quale regola aurea per estendere ed assicurare nel tempo la propria egemonia su scala mondiale.

Rimland, arco di crisi, crisis management, shatterbelt, sono infatti i concetti-guida dell’interpretazione geopolitica (e geostrategica) degli scenari mondiali fornita dai think tank anglo-americani.

La falsa analogia tra la “geopolitica del caos” e il principio divide et impera dell’antico impero romano, il paradigma degli imperi continentali, emerge in tutta chiarezza. Lì, l’applicazione del principio è funzionale all’integrazione delle singole componenti in uno spazio territoriale unico e continuo, l’ecumene imperiale, e orientato, soprattutto, a limitare perturbazioni e tensioni locali per il bene supremo della comune casa imperiale; qui, la divisione e le tensioni endogene, peraltro spesso artificialmente alimentate, vengono poste in essere per perturbare e frammentare altri spazi geopolitici onde depredarne risorse e assoggettarne le popolazioni residenti. Lì, l’integrazione in un nuovo cosmos, qui la distruzione, il caos. Lì, le nazioni, il civis, lo spazio politico, qui l’individuo, il consumatore, l’illimitato spazio economico [10].

Il particolare punto di vista “oceanico” e globalizzatore influenzerà tutte le dottrine geopolitiche dei moderni imperialismi, a partire da quelli coloniali di spoliazione fino ad arrivare agli attuali Stati Uniti.

L’Occidente e il diritto internazionale moderno

Se la nascita del diritto internazionale (interstatale) moderno può essere fatta risalire alla pace di Westfalia (1648), la sua gestazione può datarsi a partire dal 1493, l’anno successivo alla scoperta del Nuovo Mondo, con l’emanazione delle Bolle di papa Alessandro VI relative all’arbitrato pontificio tra Spagna e Portogallo.

I cinque documenti alessandrini [Inter coetera Divinae (3 e 4 maggio 1493), Eximiae devotionis (4 maggio), Pii fidelium (23 giugno), e Dudum siquidem (25 settembre)], costituendo, insieme ai trattati di Tordesillas (7 giugno 1494) e di Saragozza (22 aprile 1529), le basi sia di un nuovo ordinamento per sfere d’influenza, formalmente riconosciute, sia una nuova rappresentazione del mondo, inaugurano di fatto la “politica mondiale” dell’era moderna.

Ai documenti sopra citati si deve aggiungere anche il trattato ispano-francese di Cateau-Cambrésis (1559) che ridefinisce gli equilibri europei, sposta il baricentro dal Mediterraneo all’Atlantico e istituisce le amity lines.

E’ dunque con la scoperta della pars occidentalis del pianeta e della sua particolare suddivisione, secondo la determinazione delle cattoliche rayas ispano-portoghesi e, in seguito, delle più “laiche” amity lines franco-inglesi, che si fa strada un nuovo diritto, seppur ancora formalmente collegato alle residuali concezioni medievali.

Il nuovo atteggiamento, che tiene conto dell’elemento marittimo extra-europeo (oceanico), influenzerà, prima per vie traverse, poi sempre più direttamente (mano a mano che avanzerà il processo di secolarizzazione e, contestualmente, si amplierà l’influenza della sfera economica nei processi di decisione politica), i trattati internazionali successivi.

Nel Continente Antico, gli instrumenta della Pace di Westfalia (1648) [instrumentum pacis osnabrugensis & instrumentum pacis monasteriensis] con il Trattato dei Pirenei (1659) tra Francia e Spagna stabiliscono il nuovo ordinamento internazionale e la moderna concezione della sovranità statale, che troverà il suo compimento nella creazione dello Stato-Nazione della rivoluzione francese.

Sostanzialmente la storia del diritto internazionale (interstatale) è, a partire dal 1648, la storia delle regole che le potenze egemoni impongono col duplice scopo di mantenere il proprio potere e di contenere gli effetti della frammentazione delle antiche unità geopolitiche imperiali. La continua disgregazione dell’ecumene imperiale, infatti, provoca dapprima le guerre di religione, in seguito quelle dinastiche, poi la nascita dei nazionalismi fino ad arrivare alle guerre interetniche e tribali.

La pace di Westfalia” scrive Bertrand Badie “trasforma l’Impero in una specie di stato federale in seno al quale coesistono ormai 343 stati sovrani: principati, città e vescovadi. […]. L’autorità è ormai inferita dal principio di territorialità e non più dalle insegne imperiali” [11].

Il processo di frammentazione dello spazio geopolitico europeo e vicinorientale (l’Impero ottomano) sarà inarrestabile.

A trarre vantaggio dello stato di debolezza della parte occidentale della landmass eurasiatica, saranno proprio le potenze marittime, la Gran Bretagna e gli USA, le quali riusciranno a imporre nel tempo, su scala globale, il loro particolare diritto.

Quando il Continente Antico cercherà di trovare soluzioni integrative, seppur discutibili, come ad esempio quella tramite la Santa Alleanza (1815), allora si assisterà ad una controreazione tipicamente geopolitica, articolata sulla contrapposizione tra potenze di terra e di mare.

Al debole tentativo di integrazione europeo, risponderà ben presto il “controraggruppamento” marittimo.

A tal riguardo scriveva Schmitt nel 1928, “Il destino della Santa Alleanza, dell’unico sistema generale europeo degli ultimi secoli, mostra meglio di ogni costruzione quali difficoltà politiche si oppongono ad un’unificazione europea. Infatti, non appena si affacciò un simile sistema europeo, subito apparve dall’altro lato anche il controraggruppamento. La dottrina Monroe proclamata nell’anno 1823 dagli Stati Uniti (con l’approvazione dell’Inghilterra) si rivolgeva proprio contro questa Santa Alleanza e contrapponeva al tentativo di una federazione europea il continente americano unitario, prima ancora che questo continente fosse completamente colonizzato e popolato. Un’unificazione politica dell’Europa sarebbe dal punto di vista della politica mondiale un evento inaudito” [12].

La dottrina Adams-Monroe, stabilendo il principio secondo il quale la sovranità sull’intero emisfero occidentale appartiene di diritto agli Stati Uniti d’America, istituisce una nuova divisione del pianeta. Una divisione che nel corso degli anni genererà necessariamente nuove strumentazioni normative tra gli attori dell’epoca. Le nuove normative saranno, vale la pena sottolinearlo, influenzate dal moralismo che aveva ispirato il documento di Monroe, la cui finalità è quella di imporre “un nuovo ordine spaziale della terra, attraverso la distinzione di un campo di pace e sicura libertà e di un campo di dispotismo e corruzione” [13].

A questa divisione in due emisferi, di lì a poco, intorno al 1890, corrisponderà un altro evento di rilevanza geopolitica: la chiusura della frontiera interna e la ricerca, per gli Stati Uniti, di mercati oltreoceano; in breve, la sua definitiva consacrazione come grande potenza. Tra il 1899 e il 1905, con la dottrina della “Porta aperta” (espansione verso la Cina) e il corollario aggiunto dal presidente Theodore Roosevelt alla dottrina Monroe, che attribuisce ai soli Stati Uniti la prerogativa di intervenire nell’America centrale al fine di garantire i diritti degli investitori stranieri, viene avviato quel processo per il quale i nuovi principi e regolamenti internazionali saranno progressivamente ideati ed applicati in funzione della salvaguardia degli esclusivi interessi della nuova potenza mondiale.

Ma è con l’ingresso degli USA nella Grande Guerra che inizia la vera occidentalizzazione del pianeta, cioè, dal particolare punto di vista della geopolitica, l’influenza progressiva della potenza d’oltreoceano nella massa continentale euroafroasiatica. Un’influenza che, in seguito agli esiti del secondo conflitto mondiale, della caduta dell’URSS – unica potenza continentale che frena la spinta statunitense verso oriente – , si tramuterà in “occupazione” e “controllo”, seguendo le classiche logiche delle talassocrazie.

A questo inizio si associa il contestuale tramonto del diritto internazionale.

Infatti, se negli anni successivi alla dottrina della “Porta aperta” gli USA avevano prospettato alcune norme legali, come l’arbitrato, per risolvere le dispute internazionali, le esigenze dettate dalle nuove condizioni geopolitiche, emerse a seguito della grande guerra civile europea, li sollecitano a rielaborare le precedenti dottrine (Monroe, Porta aperta) “attingendo apertamente alla cultura di un proprio destino storico messianico – fino a proporsi come ideatori e arbitri di un sistema internazionale interamente rinnovato” [14], che sosterrà la prassi imperialistica ed egemonica di Washington.

Con la fine della Grande Guerra sarà palese che “il concetto di stato come concetto centrale del diritto internazionale delle genti è sorpassato” [15]. Si fa strada, infatti, con l’istituzione della Società delle Nazioni, promossa dal presidente statunitense Woodrow Wilson (ma gli USA, come noto, non faranno parte del nuovo organismo), una pratica che tende gradatamente a svilire le prerogative della sovranità statale a favore dei diritti sopranazionali della comunità internazionale, in particolare con l’introduzione della giustizia penale nell’ordinamento internazionale. Di ciò sono un esempio i tentativi, peraltro falliti, di instaurare tribunali speciali contro il Kaiser e alcune personalità turche.

Al termine del secondo conflitto mondiale, con l’occupazione di un’importante parte dello spazio eurasiatico da parte degli USA, tale concezione produrrà l’istituzione dei tribunali speciali di Norimberga e di Tokyo e la costituzione dell’ONU.

Va sottolineato, in particolare, che, dal 1945 sino ai nostri giorni, ogni atto internazionale di una certa rilevanza svuoterà gradualmente il diritto internazionale, asservendone, peraltro, le parti residuali agli evidenti interessi egemonici dell’iperpotenza statunitense.

L’ingerenza umanitaria, la retorica dei diritti umani, la riscoperta della cosiddetta Comunità internazionale in funzione neocolonialista, la criminalizzazione del nemico politico, insieme ad altri elementi più tipicamente geopolitici e geostrategici, costituiscono ormai la nuova dottrina dell’espansionismo statunitense a livello planetario.

Il “continente senza limiti” ha realizzato, all’inizio del XXI secolo, la totale consunzione del diritto internazionale, facendone chiffon de papier.

Il nuovo ordinamento nell’era post-globale

Se il diritto è terraneo e riferito alla terra, un nuovo diritto emergerà necessariamente da una nuova interpretazione e suddivisione del nostro pianeta. A tale interpretazione contribuiranno in maniera rilevante i risultati delle speculazioni tratte dallo studio dei prossimi scenari geopolitici.

Per il momento possiamo costatare che l’occidentalizzazione del pianeta intrapresa dagli USA, mediante modalità economiche, politiche e militari, peraltro aggressive ed arroganti, ha provocato negli ultimi anni una sorta di controreazione, che va mano a mano consolidandosi facendo perno, dal punto di vista geopolitico, principalmente sulle recenti intese eurasiatiche tra Russia, Cina ed India. Queste nuove intese sembrano essere gli elementi cardine di un nuovo assetto geopolitico che, conseguentemente, introdurrà nuovi confini tra gli attori globali. A ciò bisogna aggiungere anche l’effetto di polarizzazione che l’emergente integrazione eurasiatica già produce in altre parti del pianeta, finora considerate di esclusiva pertinenza occidentale, come la Turchia e, in particolare, il Sudamerica. Pare quindi annunciarsi una nuova era post-globale. Si impone pertanto la necessità di nuove regole e di riformulare, eliminare o sostituire alcuni organismi sopranazionali come l’ONU.

Manca tuttavia ancora, in riferimento alla messa in cantiere di un nuovo ordinamento, che definiamo per il momento multipolare e post-globale, un tipico elemento geopolitico: una chiara demarcazione spaziale, analoga, per alcuni aspetti, a quelle formulate da Alessandro VI nel 1493 e da Monroe nel 1823.

È dunque dalla contrapposizione epocale tra la tendenza unipolare e globalizzatrice dell’Occidente (a guida statunitense) e quella eurasiatica e multipolare che emergerà un nuovo ordinamento.

Note

1. Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlino, Duncker & Humbolt, 1974. Edizione italiana a cura di Emanuele Castrucci e Franco Volpi, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum europaeum“, Milano, Adelphi edizioni, 1991, p. 20.

2. Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II volume, Potere, diritto, religione, a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, p. 293 e segg. Si veda anche Luisa Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2007, p. 23.

3. Marcel Granet, Il pensiero cinese, Milano, Adelphi, 1971, p. 68.

4. Per il termine oceanico, si fa riferimento alla tripartizione stabilita dal geografo tedesco Ernst Kapp: cultura potamica, talasso-mediterranea, oceanica.

5. In particolare, ai nostri giorni, “essa riguarda non solo interessi materiali, ma anche valori quali la democrazia, i diritti umani, il rispetto di norme internazionali, ecc. Mentre i conflitti si sono regionalizzati e localizzati, la sicurezza rimane, tradizionalmente, globale. Si è determinata, quindi, una dissociazione tra sicurezza e difesa.” (Carlo Jean, Manuale di studi strategici, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 38.)

6. E’ in base proprio ad un’estensione del principio di sicurezza che gli USA, rinverdendo la prassi attuata durante l’occupazione delle terre appartenenti agli antichi abitatori del Nuovo Mondo, oltrepassano il diritto internazionale (interstatale), rendendo di fatto giuridicamente res nullius i territori ove è esercitata un’altra sovranità. In coerenza con tale principio, gli organi legislativi statunitensi producono nuove regole che hanno una forte incidenza sul piano del diritto internazionale. Sulle relazioni tra sicurezza, spazio aereo e giurisdizione statunitense, si veda, in questo stesso numero di Eurasia (4/2007), l’articolo di Jean-Claude Paye.

7. Tale mutamento radicale dell’idea di spazio si rifletterà nelle diverse concezioni relative alla guerra e al nemico. “La guerra terrestre si razionalizza, facendo dello scontro armato tra stati sovrani un’opposizione tra hostes aequaliter justi. La guerra marina rimane invece ancorata al “diritto di preda”, non distingue tra nemico ed avversario, tra combattente e popolazione civile, tra guerra commerciale e guerra armata in senso proprio. Una contraddizione insanabile, destinata a riaffiorare drammaticamente a distanza di quattro secoli allorché – declinato lo jus publicum europaeum e con esso lo stato continentale – si assisterà al riemergere dell’idea di justa causa, all’affermazione di un concetto discriminatorio e moralistico del nemico ed alla trasformazione de ‘la guerre en forme’ sei-settecentesca in ‘guerra totale’ “, Alessandro Campi, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze, Akropolis, 1996, 50-51. Più estesamente, sulla criminalizzazione della guerra e sulla guerra umanitaria si leggani le chiarificatrici pagine di Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Bari, Laterza, 1996, pp. 3-67.

8. “La morale brahmanica pone il viaggio in mare tra i peccati gravi. […] Anche in epoca vedica, il Baudhayana Dharmasastra proscriveva le traversate, mentre le Leggi di Manu raccomandavavo di tenersi lontano da chi le aveva effettuate. L’induismo medievale riprende i principi di questi antichi testi”, così Geneviève Bouchon, ‘Les musulmans du Kerala à l’epoque de la découverte portugaise’, Mare luso-indicum II, p.11, citazione tratta da Hervé Coutau-Bègarie, Géostratégie de l’océan Indien, Paris, Economica, 1993, p. 238 e segg. Per la Cina, il rapporto tra lo spazio e il mare è emblematicamente definito dal fatto che al di fuori dei quattro lati, che delimitano il quadrato sacro (che rappresenta la totalità dell’Impero), “si trovano, a formare una specie di frangia, quattro regioni vaghe che vengono chiamate i Quattro Mari. In questi Mari diversi, abitano quattro specie di Barbari.”, Marcel Granet, op. cit., p. 69.

9. Carlo Maria Santoro, Studi di geopolitica, Milano, G. Giappichelli, 1997, p. 84.

10. Notiamo che il ricorso alla analogia (e alla equiparazione) tra l’Impero romano e la potenza statunitense ha subito, nel corso degli ultimi anni, un notevole incremento e una intensificazione senza pari, sia da parte dei sostenitori della politica mondiale di Washington che dei suoi critici. Qui, non potendo, per motivi di spazio, entrare dettagliatamente in merito a tale analogia (e equiparazione), sia formale sia informale, che consideriamo una sorta di aberrazione interpretativa, ci preme sottolineare la sua inconsistenza, e dunque la sua impraticabilità euristica, per almeno tre motivi principali. Il primo relativo al fatto che l’Impero romano si autoconcepisce come struttura territoriale, mentre la potenza statunitense è intimamente connessa alle logiche oceaniche: gli interessi dell’ecumene romana sono localizzati, mentre quelli degli USA sono deterritorializzati; il secondo è in relazione al fatto che l’Impero tende all’autosufficienza, mentre la talassocrazia statunitense all’interdipendenza economica e finanziaria; infine, la terza considerazione è relativa al fatto che il cosiddetto universalismo imperiale è per l’appunto imperiale e non globale. L’impero romano mantiene e protegge le varie e differenti forme giuridiche e culture locali nell’ambito del suo spazio, che rimane sempre qualitativamente disomogeo. Al contrario degli USA, esso non tende cioè a un governo mondiale, all’”one world order” che si esprime attraverso l’uniformazione e la standardizzazione, cioè attraverso la distruzione dei caratteri culturali dei vari popoli e delle diverse comunità.

11. Bertrand Badie, La fine dei territori, Trieste, Asterios editore, 1996, p.41.

12. Carl Schmitt, Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di Antonio Caracciolo Milano, Giuffrè Editore, 2007, p. 152. Il singolo saggio cui la citazione si riferisce è un articolo del 1928 con titolo: “La Società delle Nazioni e l’Europa”.

13. Carl Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Antonio Pellicani, 1994, p.281.

14. Federico Romero, U.S.A. Potenza mondiale, Firenze, Giunti, 1996, p. 27.

15. Carl Schmitt, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Roma, Settimo Sigillo, 1996. p. 49.

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